Solleder-Lettembauer alla nord ovest della Civetta: un anniversario
dimenticato.
di
Gabriele Villa
Se provate a chiedere
ad un alpinista qual è la “parete delle pareti” vi risponderà senza
pensarci un solo istante: la nord ovest della Civetta; se gli doveste
chiedere, invece, se conosce la via Solleder-Lettembauer vi guarderebbe
sorridendo chiedendovi se lo state prendendo in giro, perché tutti gli
alpinisti sanno bene di che cosa si tratta.
Se dovessi spiegarlo ad un escursionista che non conosce la storia
dell’alpinismo o ad un inesperto, cercherei di farlo con un paragone,
dicendogli che la via Solleder-Lettembauer alla parete nord ovest della
Civetta sta all’alpinismo come la Milano Sanremo sta al ciclismo, o come
il circuito di Le Mans sta all’automobilismo, o ancora come la
Marcialonga sta allo sci da fondo. Non so se i paragoni sarebbero corretti
in quanto l’alpinismo non è uno sport agonistico competitivo, ma credo
che il mio ipotetico interlocutore capirebbe il concetto.
Così la descrive la guida alpinistica di Oscar Kelemina: “E’ la più
classica via in arrampicata libera del gruppo. Pericolosa per la caduta di
pietre. Estremamente pericolosa in caso di maltempo per le cascate
d’acqua e le scariche di sassi. Percorribile completamente in
arrampicata libera e molto impegnativa”.
Ma una descrizione non basta a spiegare il “mito” di questo percorso,
perché altre vie dolomitiche dello stesso periodo sono altrettanto lunghe
(1250 metri di sviluppo) e ugualmente impegnative.
Il fatto è che la via Solleder-Lettembauer, aperta il 7 agosto del 1925,
ha un’importanza storica senza uguali in quanto fu successivamente
portata ad esempio agli alpinisti quale scalata di “sesto grado”,
ovvero il primo itinerario quotato di estrema difficoltà, secondo la
scala di sei gradi messa a punto dai fortissimi arrampicatori della
cosiddetta Scuola di Monaco e che tutti conoscono con il nome di scala
Welzembach.
Quella scala ha fatto testo sulle Alpi per il successivo mezzo secolo,
fino a metà degli anni settanta, quando è saltata sotto la pressione dei
crescenti progressi dell’arrampicata, a più sicure tecniche di
assicurazione, allo sviluppo dei materiali e ai sistematici allenamenti.
Oggi quel “sesto grado” non è più il limite delle possibilità umane
in arrampicata e ciò ha contribuito a far passare di moda questa via, che
oggi è raramente ripetuta, anche se è rimasta una via molto impegnativa
e temuta per l’ambiente impressionante di gole e camini in cui si snoda,
la roccia poco chiodabile e a tratti friabile, le soste precarie, la
difficoltà d’orientamento, le colate d’acqua e le scariche di sassi
che la minacciano, specie in caso di maltempo. Sono passati giusti
ottant’anni da quell’estate del 1925, un anniversario di cui pare
tutti si siano dimenticati, abituati come siamo a festeggiare solo i
centenari, o forse anche a ricordare gli avvenimenti che possono creare
business, piuttosto che per valorizzarne la reale importanza.
Primi giorni di agosto del 1925: rifugio Sonino al Coldai.
“Alla fioca luce di una lampada a petrolio, seduti ad un tavolo, Emil
Solleder scorge due alpinisti che, nello scambiare il saluto, riconosce
come monachesi: Franz Goebel e Gustav Lettembauer. Non ci vuole molta
fantasia per intuire che sono due candidati alla parete nord. Anche i due
amici si chiedono cosa faccia quassù questo collega tutto solo.
Per un
po’ si destreggiano in una reciproca schermaglia di reticenze, poi i due
chiedono a Solleder se abbia sentito parlare di qualcuno che abbia avuto
ragione della famosa nord della Furchetta e confidano i loro propositi per
la Civetta. Allora anche Solleder scopre le sue carte: racconta del
successo suo e di Wiessner e, poco dopo, il patto è stretto.
Affronteranno tutti e tre insieme la parete delle pareti”.
Così Alfonso Bernardi nel libro “La grande Civetta” (Zanichelli)
racconta l’incontro fra quelli che diverranno i protagonisti di quella
storica salita di “sesto grado”. Durante la prima ascensione della
Furchetta, Fritz Wiessner si era fatto male a causa di una scarica di
sassi che lo aveva colpito; per questo Solleder era salito da solo al
Coldai.
L’indomani i tre effettuarono un deciso tentativo: superato lo zoccolo,
attaccarono la difficilissima fessura iniziale che fu superata da
Lettembauer, poi passò avanti Solleder e continuarono fino ad arrivare al
“camino bloccato”, un altro dei tratti più ardui della salita.
Dopo un vano tentativo di Lettembauer di superare la spaccatura umida e
liscia, fu Solleder a vincere la levigata parete di sinistra, arrivando
sopra allo strapiombo, ma quando toccò a Goebel, questi volò, battendo
malamente contro la roccia, rimanendo a penzoloni nel vuoto.
I due compagni riuscirono a sollevarlo fino alla sosta, ma oramai si era
fatto tardi ed i tre si apprestarono al bivacco. L’indomani la montagna
venne avvolta da dense nuvole grigie ed iniziò a piovere, il che
costrinse il trio alla forzata discesa, che richiese sei ore di corde
doppie.
Due giorni di riposo al rifugio non furono sufficienti a Goebel per
riprendersi dalla ferita al piede, per cui fu costretto a rinunciare alla
salita. Fu così che la guida alpina Emil Solleder e il tecnico ortopedico
Gustav Lettembauer il 7 agosto 1925, dopo quindici ore di dura scalata,
ebbero ragione della parete delle pareti, compiendo un’impresa che destò
grande interesse negli ambienti alpinistici più qualificati di lingua
tedesca e fu ritenuta, negli studi per la classificazione delle difficoltà
di arrampicata, come l’esempio “limite”, rimanendo tale per oltre
cinquant’anni.
14 agosto del 2004: due alpinisti, mescolati fra tanti altri, sono stesi
nelle rispettive brande, al rifugio del Coldai.
Fuori il vento soffia
forte, certamente spazzerà via le nuvole residue e l’indomani sarà una
bella giornata, proprio quello che serve per portare a compimento il loro
progetto, la ripetizione della via Solleder-Lettembauer alla nord ovest
della Civetta. L’indomani si alzano
presto e camminano veloci fino ad arrivare al centro della grande muraglia
che incombe per un’altezza di mille metri sopra le loro teste.
Fra i
ghiaioni compare un alpinista con un enorme saccone sulle spalle, con il
quale scambiano rapide parole: è uno che ha bivaccato fuori perché,
dice, “con quello che mi aspetta i prossimi giorni meglio non indulgere
nelle comodità, per non perdere la concentrazione”.
Il suo progetto è
la prima ripetizione solitaria della via “dei 5 di Valmadrera”:
capiscono che non è “uno qualsiasi”, ma un alpinista con i
controfiocchi.
Fanno un tratto di sentiero assieme, poi si separano augurandosi
reciprocamente buona fortuna.
E così arrivano allo zoccolo, lo risalgono fino ad arrivare al cospetto
della fessura d’attacco, sulla quale si cimentano senza esitazione,
alternandosi al comando della cordata.
Hanno studiato la relazione molto dettagliatamente, cercando di capire
anche quali sono i tiri di corda da poter collegare per riuscire a fare
meno soste e di conseguenza perdere meno tempo con le manovre di recupero
della corda e di assicurazione. Infatti, salgono veloci, almeno per la
prima metà della via, poi le cose si complicano un po’, non solo per la
stanchezza della salita che comincia a farsi sentire, ma anche perché la
parte superiore della via è più complessa da trovare.
Superano la cascata, uno dei passaggi caratteristici della via e
proseguono, mentre le ore corrono veloci; ma anche loro sono in alto e, se
non ci saranno imprevisti, riusciranno ad arrivare in vetta evitando il
bivacco in parete.
La loro supposizione si rivela “quasi” esatta: il primo buio li
sorprende prima dell’ultimo tiro di corda, ma le difficoltà sono tali
da consentire di superarlo con la luce della lampada frontale.
Alle 21 e 30 sono entrambi sulla cima del Civetta a quota 3220 metri,
mentre al buio si aggiunge anche la nebbia a limitare ulteriormente la
visibilità. Per non perdere la traccia del sentiero uno rimane fermo al
bollo rosso segnavia, mentre l’altro cerca il successivo alla luce della
frontale; quando lo ha trovato dà il via all’altro che procede oltre
cercando il bollo rosso seguente.
Un lavoro di pazienza che consente di arrivare a mezzanotte al rifugio
Torrani, all’interno del quale tutti dormono. Parrebbe logico fermarsi,
ma i due amici vogliono scendere, incuranti del buio e della foschia.
S’inoltrano lungo la via normale, lentamente, fino ad arrivare al
sentiero Tivàn.
Alle tre di notte si fermano, accovacciandosi avvolti nel telo di
alluminio.
Le loro membra intorpidite e stanche trovano riposo, ma solamente per due
ore, perchè alle prime luci riprendono il cammino. Alle otto della
mattina sono nella sala da pranzo del rifugio Coldai a fare colazione
sotto la gigantografia della parete nord ovest che hanno salito il giorno
precedente e la sensazione che provano è di essere nuovamente catapultati
in piena parete.
Non è la cronaca di un’impresa, ma semplicemente il
racconto della salita di una via che conserva un residuo di aura
“mitica”, una di quelle ancora molto ambite, nonostante gli
ottant’anni dall’apertura.
A noi interessava raccontarla perché quei
due alpinisti sono ferraresi: i primi (e unici) ferraresi ad averla
affrontata e così ci è piaciuta l’idea di fare con loro una
chiacchierata, per capire di più della via Solleder-Lettembauer, di
questo “mito” (o ex mito, se preferite).
Con Michele Scuccimarra (detto Chicco) abbiamo parlato seduti a tavola,
con la mano che si alternava tra la forchetta infilata in un piatto di
penne all’olio piccante e la biro che scorreva sul taccuino degli
appunti.
Nella ricorrenza degli ottant’anni dell’apertura della
Solleder-Lettembauer, c’incuriosiva capire se la definizione di “prima
via di sesto grado aperta nelle Dolomiti”, fosse ancora attuale o se
quella definizione fosse stata suggerita maggiormente dalle difficoltà
ambientali della montagna, piuttosto che dalle difficoltà tecniche in
roccia.
“Considero la
Solleder una via “regina”, nel senso che è completa, c’è tutto: la
lunghezza, la difficoltà, l’ambiente, l’orientamento, la chiodatura
scarsa e ancora in buona parte originale, la roccia marcia in alcuni
tratti, l’arrampicata sotto la cascata…. Quando tu vai non è
per superare una difficoltà tecnica, ma per risolvere un enigma, quello
di trovare il percorso esatto, che ha una logica alpinistica, perchè
arriva alla cima seguendo il tracciato relativamente più facile di quel
tratto di parete. Per questo motivo, più che le capacità tecniche in
senso stretto, è fondamentale l’esperienza dell’alpinista su quel
tipo di via, perché è quella che ti porta fuori dalla parete”.
Come ci si sente quando
si percorre una via che fa parte della storia dell’alpinismo dolomitico?
“E’ come
passeggiare nella storia e non è una frase fatta. Ti ritrovi nei luoghi
descritti nei libri di alpinismo che hai letto. Si trovano ancora i chiodi
originari, il cuneo di Lettembauer nel traverso iniziale (che però ho
rinforzato con un friend), le nicchie caratteristiche o altri punti
riconoscibili”.
E’ sua la cronaca
della salita che vi ho descritto prima, raccontata senza alcuna enfasi, ma
con la semplicità di chi ha solamente assecondato la propria passione,
con consapevolezza e determinazione.
L’altro, Paolo Gorini (chiamato il
Doc, in quanto medico chirurgo di professione), lo abbiamo raggiunto nella
palestra indoor di arrampicata, carpendogli qualche impressione fra un
esercizio di allungamento e l’altro.
Gli abbiamo fatto due semplici
domande, ma molto “mirate”, delle quali, conoscendolo da ben
trent’anni, possiamo affermare di aver conosciuto le risposte in
anticipo.
Come avete scelto di
salire la Solleder-Lettembauer?
“Volevamo fare una
via di ampio respiro e perciò stavamo valutando una serie di percorsi.
Alla fine ci siamo
detti: e perché no la Solleder? La forma fisica per fare quel tipo di via
devi averla sempre, il resto lo fa la voglia di seguire un tracciato
piuttosto di un altro e per la Solleder la motivazione era molto forte”.
Tu sei cresciuto
passando tutte le estati in Val di Zoldo, con il Civetta davanti alle
finestre di casa.
Cosa ha rappresentato
per te fare quella salita?
Paolo smette di muovere
le braccia nell’esercizio fisico e accenna un sorriso.
“Ha rappresentato la
realizzazione di un sogno”.
Una frase che potrebbe
apparire fin troppo banale, se non ne desse, subito dopo, una spiegazione
che ne chiarisce perfettamente le motivazioni profonde.
“La prima volta che
sono andato sotto la nord ovest del Civetta avevo sette anni ed ero con
mio padre, mia madre e mia sorella. Era appena stato inaugurato il rifugio
Tissi, mancava ancora la luce elettrica. Dalla grande vetrata del rifugio
guardavamo quella gigantesca parete e mio padre, alpinista a sua volta, mi
indicò il centro della parete.
Mi disse che lì correva una via che si
chiamava Solleder e che era difficilissima e bellissima allo stesso tempo.
Poi ricordo la camerata e le brande nelle quali ci coricammo, in quel
rifugio sperso sulla montagna.
Con l’andare degli anni sono passato
infinite volte sotto quella parete, sempre guardando quella ideale linea
di salita, e, alla fine, è diventato un tarlo. Ho arrampicato per anni
con quel tarlo fino a che, una via dopo l’altra, si è stratificata
l’esperienza sufficiente per andare a provarla”.
Volendo
concludere con una riflessione personale mi viene da pensare ad un
elemento “unificante” fra le due interviste, raccolte separatamente:
entrambi, pur se con parole diverse, hanno ribadito il concetto che ciò
che conta per ripetere una via di quella portata è l’esperienza
alpinistica maturata nel corso degli anni di attività personale.
Non solo
la “capacità tecnica” di superare una difficoltà legata al grado in
sé, ma anche e soprattutto una “capacità complessiva” di lettura
della parete, di orientamento, di valutazione.
A mio parere (strettamente
personale) la capacità che differenzia un alpinista da un arrampicatore.
Gabriele Villa
Ferrara,
12 ottobre 2005
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